L’assoluta modernità di un sapore antico

900 metri di altitudine, pendenze oltre i 40 gradi e un Mitsubishi L200 in grado di sfrecciare in mezzo alle vigne in piena vendemmia. Ci sarebbero i presupposti per brevettare un nuovo sport estremo, ma le condizioni sarebbero irriproducibili, e per il terroir e per il pilota, “un certo” Pasquale Clemente, che dopo averci offerto la miglior pasta e patate della nostra vita al ristorante La Falanghina di Bonea (2 nomi a caso!), ci ha letteralmente trasportati in un’esperienza quasi impossibile da descrivere a parole. Nel mezzo, siamo anche riusciti a intervistare Pasquale che di Masseria Frattasi è davvero l’anima. Il risultato è stata una lunga chiacchierata su identità, territorio, storia e radici.

Partendo proprio della origini, Masseria Frattasi alleva varietà che sono per la maggior parte autoctone, avete vigneti antichi e la storia della vostra famiglia è strettamente intrecciata con quella del Sannio, dunque ti chiedo: se è vero che il vino è espressione del suo territorio, allora cosa significa per voi fare vino in questa zona?

Significa lavorare portandosi dietro le esperienze maturate dalle diverse generazioni che qui si sono succedute. Significa aver assimilato naturalmente una conoscenza del territorio profonda, quasi simbiotica. È davvero il frutto del lavoro di secoli: per noi potare una vite in un certo modo, mettere le viti in un certo luogo significa attingere a un sapere antico che va oltre la nostra storia individuale e che si è stratificato nei secoli.

Non dimentichiamo che è stato questo il territorio che i Greci hanno scelto per portare la viticoltura nell’Europa Occidentale. Dunque conoscere questo territorio significa andare alle radici dell’intera storia della viticoltura occidentale.

Una dimensione secolare che è testimoniata, fra l’altro, dalla grande varietà di vitigni autoctoni che si trovano in questa zona. È una ricchezza straordinaria, anche se molti non vengono coltivati perché non sono riconosciuti dal registro nazionale della vite. Ecco, per me, fare vino qui vuol dire portarsi dietro tutta questa complessità.

Continuando a parlare di territorio, il vostro è sempre stato un lavoro di tutela del Sannio e delle sue tipicità ma anche di valorizzazione della sua storia. Possiamo parlare di una visione umanistica del fare vino?

Ti rispondo con un aneddoto personale. Al Metropolitan Museum di New York c’è un bassorilievo che raffigura la coltivazione della vite durante il periodo imperiale. Ora, per chiunque – da qualunque altra parte del mondo provenga – quel bassorilievo è semplicemente una bellissima opera d’arte, per me – quando l’ho visto – è stato del tutto spontaneo riconoscere in quella scultura le viti di Falanghina prefillossera che abbiamo qui in Campania, soprattutto nel Sannio. Questo per dirti che noi abbiamo un patrimonio storico, culturale e ambientale che nessun altro possiede ed è nel nostro DNA. Quindi lavorare qui non può prescindere da questo aspetto, anche se per me è importante sottolineare che siamo un’azienda molto ben radicata nella contemporaneità. Non c’è nostalgia per il passato ma c’è la consapevolezza della ricchezza che rappresenta e il desiderio di tramandarla anche grazie agli strumenti che i nostri tempi ci offrono.

Cosa vuol dire coltivare in un luogo dalla caratteristiche così uniche? E che cosa implica dal punto di vista delle pratiche in vigna?

Fammi dire che questa, nel suo insieme, è una terra eccezionale per una questione fisica e chimica ed è per questo che i Greci la colonizzarono per prima. È nata dall’esplosione di decine di vulcani, quindi è fertilissima,

qui si possono arrivare ad avere anche quattro raccolti all’anno. Per millenni, quando la terra era ancora il bene più prezioso, questa parte di territorio ha fatto gola a tutti… Longobardi, Goti, Ungari sono tutti passati da qui perché era terra di abbondanza.

Nello specifico, Masseria Frattasi si trova nell’entroterra ed è incastonata fra le montagne più alte dell’Appennino Campano, quasi tutti i nostri vigneti (l’80% circa) si trovano sopra i 600 metri di quota, perciò la nostra è a tutti gli effetti una viticoltura di montagna.

Coltivare alle nostre altitudini è sicuramente difficile ma ci consente di fare pochissimi trattamenti. È un aspetto quello della chimica in vigna con cui tutti stanno facendo i conti ora, mentre per noi si è trattato di continuare a lavorare come lavorano i nostri nonni. Ci siamo trovati a essere moderni semplicemente facendo quello che già i nostri nonni avevano individuato come una buona pratica, che dà un’uva sana e che rispetta la terra. Per tornare al discorso di prima… come vedi, fare vino qui vuol dire dialogare continuamente con la storia, ritrovandosi ad essere – anche per questo – straordinariamente contemporanei.

Operiamo in un biologico estremo, direi naturale, perché non usiamo né pesticidi né diserbanti, aiutati sicuramente dalle altitudini che ci permettono di fare solo quattro trattamenti all’anno. Pochissimi. Ed è tutto manuale, senza il ricorso a macchine, proprio per via della peculiarità del territorio e dei suoi terrazzamenti.

Che carattere dà ai vostri vini il fatto di nascere qui?

Li definirei in sintesi vini eroici di montagna.

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